Prima di tutto il testo
Generi letterari o tipi di testo?
Il carattere eterogeneo, ma preferisco dire onnivoro e addirittura bulimico, che ho voluto conferire al corpus linguistico scripta mi ha messo ben presto di fronte alla necessità di classificare i testi introdotti, dopo aver rinunciato al desiderio, troppo gravoso da esaudire, di annotarli. Mi sono consolato pensando che dentro un archivio di parole vasto e articolato è possibile fare comunque molte ricerche interessanti, anche senza poter distinguere nella parola procurarmene ‒ tanto per chiarire il concetto ‒ un infinito e due particelle pronominali enclitiche, come invece è possibile fare in un corpus adeguatamente annotato.
Come al solito, però, le cose pretendono sempre più tempo di quello che uno pensa ne debba servire ‒ come vuole la legge di Hofstadter ‒ cosicché, per questa universalmente negletta ragione, dopo aver applicato senza troppi complimenti l’etichetta di genere romanzo a un'opera come La coscienza di Zeno di Italo Svevo, e con altrettanta disinvoltura quella di poema eroicomico a una composizione come La secchia rapita di Alessandro Tassoni, sono rimasto perplesso davanti a opere come Della coltivazione di Luigi Alamanni, perché ho dovuto ammettere che non possedevo uno strumento abbastanza preciso e sicuro che mi aiutasse nella classificazione, e quindi che sarebbe stato bene procurarmene (!) uno al più presto, per non procedere troppo arbitrariamente.
I generi non aiutano
Ho pensato che non era una buona idea insistere sui generi, che si prestano a interminabili elenchi potenzialmente fuorvianti, ma che sarebbe stato meglio fare un passo indietro e ragionare anzitutto sui testi e sulla loro classificazione, di sicuro meno varia e più universale, per poi ritornare con maggiore consapevolezza ai primi dei quali, peraltro, quelli letterari sono soltanto una parte di tutte le parole scritte, e neppure la maggiore.
Devo confessare che non sapevo quasi nulla di linguistica testuale, e che quel poco che ne avevo ricavato da alcune letture superficiali rimandava all'imperversante tipologia di Egon Werlich, la quale mi lasciava, a dir poco, tiepido.
Trovavo arbitrario sostenere che un testo poteva essere "descrittivo, narrativo, espositivo, argomentativo, istruzionale (o prescrittivo)"; benché non sapessi ancora spiegarne compiutamente la ragione. Di sicuro, però, definire un particolare testo come espositivo mi pareva quantomeno generico: quale testo, in fin dei conti, non espone qualche cosa?
Che cos'è un testo?
Mi sono persuaso che fosse necessario elaborare in primo luogo una precisa definizione di testo, dalla quale derivare successivamente una classificazione più accettabile. Per non correre il rischio di scoprire l'acqua calda sono andato anzitutto a consultare il Grande dizionario italiano dell'uso di Tullio De Mauro per cercare qualche lume che potesse orientarmi.
Non l'ho trovato. La definizione [1] è troppo blanda, e inoltre incorpora nel concetto di testo sia gli scritti sia i discorsi, cosa che mi lascia perplesso. Le altre definizioni sono piuttosto tecniche, e quindi marginali, tranne la definizione [4], classificata come linguistica, che appare più sostanziosa, ma introduce un ulteriore elemento di perplessità, con quel riferimento alla "compattezza morfosintattica" e alla "unità di significato", senza contare che viene ribadito che un testo può essere orale o scritto.
Anche un'opera come Linguistica testuale dell'italiano di Massimo Palermo, espressamente dedicata a questo argomento, dà una definizione di testo che non mi ha soddisfatto.
Qualsiasi enunciato o insieme di enunciati ‒ realizzato in forma orale, scritta o trasmessa ‒ dotato di senso, che, collocato all'interno di opportune coordinate contestuali, realizza una funzione comunicativa.
Si tratta di una definizione troppo preoccupata del senso, secondo me, e generica, che non viene neppure declinata ‒ come quella di Tullio De Mauro ‒ in "compattezza morfosintattica" e "unità di significato".
Un punto di vista eccentrico
Allora ho provato a esaminare il problema da un diverso punto di vista ‒ diciamo meno accademico ‒ per venire a capo delle mie perplessità.
La figura sportiva di Giovanni Trapattoni gode di generale apprezzamento e stima per le sue qualità professionali e umane, ma non brilla per la chiarezza delle sue esposizioni verbali. Su questo perdonabile difetto la Gialappa's Band ha spesso ironizzato affettuosamente, mettendo con puntiglio per iscritto le sue sconclusionate dichiarazioni.
La domanda è: le dichiarazioni di Trapattoni costituiscono un testo? La risposta dovrebbe essere negativa, secondo De Mauro e Palermo, considerata la loro mancanza di "compattezza morfosintattica" e "unità di significato". Al primo quesito dell'intervistatrice, infatti, egli risponde letteralmente:
Credo che un allenatore, come uno scrittore, non debba solo scrivere scudetti o premi Nobel o campionati, ma possa fare altri romanzi sempre molto leggibili e belli.
E quando l'intervistatrice chiede "Trapattoni, perché nel calcio non si può mai dire la verità?" questa è la risposta:
Perché io dico che attraverso un obiettivo o un microfono, se non viene spezzettato e invertite alcune frasi e domande, si può dir tutto. Il problema è di una comunicazione che prende lo spunto, sincero e reale di un'analisi, sempre per porre un interrogativo che poi, così, sfoci in una polemica. Purtroppo, abbiamo, così, siamo un fenomeno così eterogeneo, e la verità tante volte dobbiamo tenercela dentro.
Riportate per iscritto, queste parole appaiono ancora più insensate che all'ascolto, sempre per via del reiterato affronto alla "compattezza morfosintattica" ecc. ecc. Eppure, non può sfuggire il fatto che è proprio un certo raccapriccio di carattere morfosintattico che la Gialappa's Band vuole produrre nell'ascoltatore, riportando parola per parola, con acribia filologica, lo sproloquio di Trapattoni. Come si fa, allora, a non considerare un testo quella verbalizzazione?
Secondo la mia opinione quelle parole vanno considerate a tutti gli effetti un testo ‒ né più né meno dell'Infinito di Leopardi ‒ ma solo dopo che sono state scritte. A un criterio di correttezza formale si deve sostituire un criterio di intenzionalità illocutoria e di volontà di conclusione, che in questo caso specifico, però, va attribuita alla Gialappa's Band piuttosto che a Trapattoni.
I comici della Gialappa's Band hanno deliberatamente confezionato il verbale del suo sproloquio per strappare una risata a chi legge, e dunque quel verbale è un testo con tutti i crismi di una edizione critica, filologicamente corretta, come chiunque assista al il filmato può accertare.
Il criterio della correttezza formale, del resto, appare piuttosto difficile da accertare, dal momento che dovrebbe essere applicato L periodare scultoreo fino al marasma morfosintattico: dove porre il limite oltre il quale non è più lecito considerare un certo enunciato degno della patente di testo? Dopotutto, alle risposte di Trapattoni si potrebbe ancora concedere questa patente, ma è evidente che si può fare molto di peggio. Quanto di peggio sarebbe troppo?
D'altro canto, i criteri di intenzionalità illocutoria e di volontà di conclusione appaiono molto più faciie da accertare e ‒ cosa da tenere in debita considerazione ‒ si mostrano anche esenti da qualsiasi tratto giudicatorio. Secondo questi criteri, perciò, un testo è qualsiasi insieme di parole che un soggetto (l'autore) ha inteso comporre e immettere nel circuito della comunicazione.
Testo scritto (ma anche testo orale?)
Anche così definito, però, non viene sciolto il dilemma se un testo possa manifestarsi sia in forma scritta, sia in forma orale. Il criterio della intenzionalità, tuttavia, consente di trovare una soluzione anche a questo dilemma, dato che nessun discorso orale, che non sia un lapidario enunciato, può dirsi del tutto intenzionale, anzitutto nel giudizio di chi lo pronuncia, il quale, se potesse, ne cambierebbe di sicuro a posteriore qualche dettaglio, per quanto insignificante, così come chi produce una composizione scritta non manca mai di sottoporla almeno ad una revisione.
È auspicabile che Trapattoni abbia desiderato correggere almeno alcuni aspetti dei propri discorsi, consapevole dei clamorosi difetti della propria elocuzione; ma non tutti temono ‒ avventatamente ‒ di patire le conseguenze di questi difetti. Qui di seguito, per esempio, riporto un frammento del discorso del 7 settembre 1934 tenuto a Bari da Benito Mussolini in occasione della quinta Fiera del Levante.
Il duce, come è noto, andava fiero della propria rapinosa facondia.
Spiace dover ammetterlo ma, quanto a "compattezza morfosintattica" ecc. ecc., Mussolini supera abbondantemente Trapattoni nell'eloquio, ragione per cui il frammento in questione potrebbe essere considerato a tutti gli effetti come parte di un testo, stando sempre alla definizione di De Mauro. Tuttavia, se possiamo comprensibilmente sospettare che Trapattoni, dopo essersi riascoltato, non abbia trovato soddisfacente la propria prestazione orale, dobbiamo aggiungere che neanche il duce, che pure era ossessionato da un irriducibile narcisismo verbale, approvò fino in fondo, a posteriori, tutto quello che aveva detto dal balcone del palazzo del governo di Bari in quel pomeriggio del 1934. Esiste la prova.
Qui di seguito, infatti, riporto la verbalizzazione della parte iniziale del frammento orale.
Noi possiamo guardare con sovrano disprezzo talune dottrine di oltr'alpe, di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, in un tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto.
Su Il Popolo d'Italia del 7 settembre, però, il passaggio del discorso suona un po' diverso.
Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr'alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto.
Nella trascrizione per la stampa, come si vede, oltre a diversi altri dettagli, il disprezzo si muta in pietà, e non c'è da credere che la trasformazione sia avvenuta senza il consenso di Mussolini. In quei mesi, infatti, i rapporti dell'Italia fascista con la Germania di Hitler erano piuttosto tesi, ed è probabile che, rivedendo il discorso, il duce si sia fatto consigliare dalla prudenza dopo essersi lasciato trascinare dalla foga oratoria.
Una definizione di testo
Che cosa possono dimostrare questi due esempi, tanto lontani nel tempo e così diversi fra loro? Io penso che consentano di sostenere almeno due principi:
1. l'intenzionalità illocutoria è preferibile alla correttezza formale per la definizione del concetto di testo;
2. in un discorso, o se si preferisce in un testo orale, questa intenzionalità non può mai essere compiuta, sia pure per le ragioni più disparate.
Sulla scorta di questi principi, dunque, io sono giunto alla semplice definizione che riporto qui di seguito.
testo: composizione verbale, scritta, intenzionale, conclusa
In parole più esplicite un testo è una composizione ‒ termine assai generico che può comprendere tranquillamente gli origami, i quartetti d'archi, la cartellonistica e via dicendo ‒ associato a quattro attributi che ne delimitano considerevolmente il significato:
1. verbale: è costituita esclusivamente di parole, il che esclude, almeno per quello che mi interessa, altre varie forme notabili di comunicazione, di carattere figurativo, musicale, multimediale e così di seguito;
2. scritta: si tratta di una restrizione che esclude la ricchezza ma anche le insidie dell'oralità e che introduce il successivo attributo;
3. intenzionale: è il nocciolo della definizione, ovvero rappresenta una assunzione di responsabilità da parte dell'autore nei confronti di qualsiasi forma di equivoco, volontario o involontario, che la propria composizione può determinare nel processo comunicativo;
4. conclusa: si tratta di una garanzia per l'autore, che si assume la responsabilità della composizione a condizione che essa venga considerata nella sua integrità, naturalmente fidando sull'onestà del lettore che vi si avvicina magari cinque secoli dopo la sua stesura.
Critiche alla definizione
Nel suo bel libro intitolato Inscrivere e cancellare Roger Chartier avanza molte riserve sulla possibilità che un testo sia distribuibile nella sua essenza, e quindi che la volontà illocutoria dell'autore possa venire rispettata per intero. A questo proposito esamina diverse esempi storici nei quali appare evidente l'inevitabile trasfigurazione e addirittura il travisamento colpevole subito dal testo nel passaggio dall'intenzione dell'autore alla distribuzione materiale. Il fatto è incontestabile e si potrebbe anche menzionare la fortuna che occorre dopotutto al testo verbale scritto rispetto alla disgrazia che tocca invece a quello musicale che, necessitando anche di una mediazione esecutiva, spesso si presenta al fruitore ben diverso da come deve averlo immaginato l'autore.
Ma tutto questo non scalfisce, secondo me, la certezza che deve pur essere esistita, benché talvolta perduta, una precisa volontà dell'autore di esprimere un pensiero mediante un testo, impiegando delle parole le quali, così come sono andate disponendosi sulle carta, almeno per un solo istante, hanno ricevuto il suo beneplacito inequivocabile.