Dalla luce al piombo, passando per il legno e per la pietra
In principio (non) era il verbo
Non ho sempre avuto un interesse dominante per le parole scritte. È vero che ho cominciato ad occuparmene abbastanza presto, ma poi mi è sbocciata una passione così bruciante per la fotografia da desiderare di trasformarla nell'occupazione della mia vita. Insomma, intorno ai vent'anni io volevo fare il fotografo, e dedicarmi alle immagini ‒ a quel particolare genere di immagini che la luce disegna spontaneamente sul fondo di una camera oscura ‒ non alle parole.
Fotografie, non parole
Nel 1974 iniziai pertanto a vivere in simbiosi con la mia reflex Minolta sr-t 101 con cui scattavo quante più fotografie potevo, compatibilmente con il costo proibitivo che aveva per me a quell'epoca il materiale sensibile (pellicola e carta), ma ne pensavo una quantità incommensurabilmente maggiore, perché mi aveva conquistato l’idea che il fotografo osservava le cose attraverso l’obiettivo per descriverle con le stampe prodotte in camera oscura. "Tutto può essere fotografato", sentenziavo nei miei appunti, "ma non si può fotografare tutto" perché era necessario fare delle scelte, secondo il proprio impegno civile e tramite una adeguata capacità espressiva.
E qui sorgeva il problema del linguaggio fotografico, questione assai dibattuto all’epoca, e più in generale della cosiddetta comunicazione iconica, locuzione che trovavo adorabile e che i semiologi adoperavano per sottolineare il fatto che il discorso verbale, secondo una risalente idea di Ferdinand De Saussure, discussa da Roland Barthes, e abbracciata criticamente da Umberto Eco, sarebbe solo una fra le tante forme di espressione e di comunicazione.
Per far fronte a tutti questi problemi che mi affascinavano, per capire come si doveva comunicare attraverso le fotografie studiavo quelle dei grandi fotografi. Avevo preso l'abitudine di schedare le notizie che raccoglievo compilando con scrupolo dei cartoncini formato 8,3 × 6,1 centimetri (ne conservo 457) dove incollavo spesso ritagli delle tante riviste fotografiche che acquistavo.
Osservando queste schedine, a distanza di quarant'anni, mi viene da pensare che nel puntiglio e nella pazienza che mettevo nel compilarle c'era in embrione tutta la mia passione a venire per le parole, scritte con cura e archiviate con metodo, ma allora quella fatica mi pareva tutta al servizio della fotografia.
A un certo punto, infatti, dato che mi trovavo in prossimità della tesi di laurea, pensai che sarebbe stato magnifico saldare quella passione al mio percorso accademico, perciò provai a convincere il mio relatore, il professor Franco Della Peruta, storico del Risorgimento e reputato studioso di questioni politiche e sociali, che non ero particolarmente motivato a occuparmi dell'industria serica comasca fra Ottocento e Novecento, come mi aveva proposto di fare lui, ma che avrei fatto i salti di gioia se avessi potuto dedicarmi alla fotografia, magari di quello stesso periodo e di quello stesso luogo.
"Caro Giordano", mi disse il professor Della Peruta con umile disponibilità, colorita della sua proverbiale calata romanesca, "non conosco del materiale sul tema, da farle studiare, però se vuole provare lei a cercare...".
Poche fotografie, però
Volevo. Eccome, se volevo. Mi buttai entusiasticamente alla ricerca di fotografie lombarde a cavallo fra Ottocento e Novecento, ma con le mie sole forze trovai ben poco, tranne una striminzita collezione di lastre fotografiche conservate presso il Museo del Risorgimento di Milano.
"Se vuole", propose allora il professore, quando tornai deluso a cercarlo, "può studiare, come sostituto, i giornali illustrati di quel periodo, visto il suo interesse per l'iconografia".
Io, veramente, non ero interessato all'iconografia in generale, bensì in particolare alle fotografie, ma confidavo di trovarne di bellissime nel materiale che mi suggeriva di esaminare il mio relatore e quindi accettai volentieri.
Andò a finire che nei giornali illustrati trovai poche fotografie, ma con il progredire del lavoro non ne fui troppo scontento, semmai fu la mia passione per esse, o meglio, la mia fiducia nella loro capacità di esprimere discorsi compiuti, che cominciò a vacillare.
Tante xilografie e alcune litografie
Qui di seguito, a sinistra, per esempio, compare la riproduzione di uno dei tanti fogli che ho esaminato. Venne pubblicato a Milano fra il 1855 e il 1860. S'intitolava così: «Il fotografo. Giornale illustrato storico, statistico, geografico, letterario, scientifico, artistico». È curioso che questo fotografo si occupasse praticamente di tutto, tranne che di fotografia, benché proprio nella testata comparisse una grande macchina fotografica con l'obiettivo scoperto. In prima pagina vi era un ritratto, niente affatto fotografico, del barone Bettino Ricasoli, futuro primo ministro dell'imminente Regno d'Italia.
Il fatto è che a quel tempo piaceva l'idea della fotografia, ovvero la capacità che essa aveva di catturare fedelmente cose e fatti del mondo, ma questa attitudine urtava con la sua impossibilità tecnica a comparire così com'era sulla pagina stampata di un giornale.
Questa è la ragione per cui la fotografia è di fatto assente dai giornali illustrati, dove comparve solo molto tardivamente, e sotto la forma particolare della cosiddetta tecnica fotomeccanica.
Ogni stampa fotografica, infatti, era un prodotto unico e costoso, da ricavare con pazienza e abilità nel chiuso della camera oscura, ma queste caratteristiche non si adattavano alle esigenza di economia e di rapidità, tipiche della stampa tipografica. Per introdurre le illustrazioni nei giornali, perciò, fu necessario rivolgersi a due tecniche di stampa che richiedevano una preparazione dell'originale tutt'altro che celere, rispetto alla fotografia, ma che poi si adattavano meglio alla tipografia, una volta che il procedimento di impressione era avviato. Caso più unico che raro, «Il fotografo» le impiegava entrambe.
L'immagine in alto a destra è un dettaglio della testata del giornale, che era stata prodotta con la tecnica xilografica.
Una xilografia è una immagine ricavata intagliando a sbalzo, tramite affilati bulini, la superficie di un blocco di durissimo legno (in genere bosso). Le tracce parallele che si possono notare nell'immagine sono proprio il risultato dell'opera di scavo sulla superficie del legno svolta dall'incisore. Come si può immaginare, si trattava di uno straordinario lavoro di pazienza e di precisione.
Anche l'immagine in basso a destra contiene un gran numero di righe parallele ma, a dispetto della prima impressione, essa è realizzata con la tecnica litografica.
Si ottiene la matrice di una litografia disegnando direttamente con una matita grassa sopra una spessa lastra di pietra porosa. In definitiva, quindi, non c'è una grande differenza tra un disegno su carta e una matrice litografica, salvo il fatto che si deve lavorare sulla matrice a rovescio ‒ peraltro anche nella xilografia ‒ per ottenere una stampa diritta.
Il bulino invece della matita
È naturale chiedersi, allora, perché si deve penare tanto col bulino sul legno, quando si può ottenere facilmente lo stesso risultato con una matita. La risposta è semplice: una matrice xilografica è del tutto simile formalmente ai caratteri tipografici che, come è noto, sono piccoli segni intagliati in rilievo nel piombo, e quindi può essere facilmente mescolata con essi nella forma tipografica che serve da base per la stampa. Tutto questo è mostrato schematicamente nelle due immagini qui di seguito.
La litografia, purtroppo, non gode di quest'ultima caratteristica, perché la sua matrice è assolutamente piatta e necessita pertanto di un passaggio di stampa tutto per sé. Questa è la ragione per cui è stata l'eccezione nella storia dei giornali illustrati, nonostante la sua innegabile flessibilità figurativa, mentre la xilografia è stata la regola.
Quasi senza accorgermene, dunque, inseguendo i diafani effetti prodotti dalla luce sui sali d’argento, mi ero affacciato nel materialissimo dominio della stampa, quella a caratteri mobili di Gutemberg, per intendersi, quella che dal xv secolo è diventata il luogo indiscusso delle parole scritte.