Il primo passo
Un esperimento senza pretese
Nel luglio del 2010 decisi di costituire una base di dati con una serie di testi classici della letteratura italiana. C'erano la Commedia di Dante, il Decameron di Boccaccio, il Furioso di Ariosto, la Marfisa di Gozzi, le Confessioni di Nievo, molti romanzi e novelle di Verga, fino alla Coscienza di Svevo. In tutto si trattava di 56 testi, per un totale di 5 799 908 parole. Chiamai la base di dati scripta.
Non avevo uno scopo preciso per questo progetto. Mi stuzzicava anzitutto il desiderio di interrogare senza troppe formalità i testi raccolti.
Innamorato e furioso
Venni così a sapere, per esempio, che la parola furioso compare sette volte nel Furioso di Ariosto, mentre la parola innamorato non vi compare per niente (con buona pace di Medoro). Al contrario, rimasi stupito nello scoprire che nell’Innamorato di Boiardo quel plausibile innamorato è scritto una sola volta, mentre l’imprevisto furioso si ritrova addirittura 51 (cinquantuno) volte.
Scoperte curiose e forse di qualche interesse, ma che non cambiano di sicuro la storia della letteratura italiana.
Come cresce un poema?
Mi dedicai però anche a ricerche forse meno futili. Mi chiesi qual è il tasso di crescita delle parole nuove in un testo, nel caso specifico nei due poemi cavallereschi appena nominati. La frase "La bambina beve il latte", per esempio, è composta di cinque parole, tutte diverse; anche la frase "Il bambino beve il latte" è composta di cinque parole, però contiene una ripetizione (l'articolo "il"), quindi le parole nuove sono quattro. Che cosa si ottiene se si applica questo raffronto a testi di cospicua lunghezza ma di contenuto non troppo dissimile?
Una risposta a questa domanda è nel grafico riportato sopra. Il Furioso contiene 279 759 parole, mentre l'Innamorato ne contiene 245 148, circa il 12% in meno. Tuttavia, il tasso di incremento della varietà di queste parole è molto diverso, tanto che alla fine dei due poemi la differenza nel numero di parole nuove supera il valore di 4 000. Se ci si limita a considerare la lunghezza dell'Innamorato si nota che alla fine del poema il rapporto fra le parole ripetute e quelle non ripetute è pari al 6,7%, mentre a quel punto della narrazione (circa 240 000 parole) il Furioso arriva già al 7,9%.
Il poema di Ariosto, dunque, possiede una ricchezza lessicale superiore a quella del poema di Boiardo; si tratta di una informazione oggettiva che può aiutare ad entrare nel merito dei due testi.
Una attestazione controversa
Nel frattempo, le dimensioni della base di dati crescevano: nel gennaio del 2011 ospitava 664 testi per complessive 23 162 349 parole; nel marzo del 2012 i testi erano 970 e le parole 30 171 727. Questo mi permetteva allargare il campo delle ricerche, ottenendo altri risultati di un certo interesse, come quello di una esplorazione sulla parola stritolio.
Il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, forse la maggiore opera lessicografica dell'italiano, adotta questa definizione:
La citazione dell'opera di Emilio Cecchi (13-398), necessaria per dare consistenza alla definizione, si riferisce ai suoi Taccuini, pubblicato nel 1976. Dunque sarebbe quello l'anno in cui quel "rumore continuo" ha guadagnano una precisa denominazione. Ma il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro anticipa la data della prima attestazione, e propone una definizione più generica:
Sarebbe dunque il 1960 l'anno di nascita ufficiale della parola adatta per designare di quel genere di rumore. La fonte, purtroppo, non è riportata. Tuttavia, interrogando scripta scoprii che già oltre un secolo prima Francesco Domenico Guerrazzi, nel romanzo Beatrice Cenci (1853), aveva impiegato quella parola:
Senza compassione, ‒ imperciocchè nel deserto dell'anima del bargello cotesto pozzo non venisse mai scavato, ‒ o se scavato una volta, da tanto tempo lo aveva riempito, che qualunque traccia gli era ormai scomparsa perfino dalla memoria ‒ senza compassione dunque, ma con tristezza, egli calcolò con quanti strappi angosciosi, con quanto stritolio di ossa avrebbe dovuto quel misero scontare il riso, forse ultimo, che gli era comparso sopra le labbra.
Anche Emilio Salgari, pero, in tempi ormai piuttosto remoti, ricorse a quella stessa parola nel romanzo I naufragatori dell'Oregon (1896):
S'udì uno stritolìo come di ossa infrante, seguìto da un urlo furioso, ed il rinoceronte, schiacciato come una semplice nocciuola malgrado la sua massa, calpestato in tutti i sensi dai larghi piedi del furibondo vincitore, si distese esalando l'ultimo respiro.
e ne Le due tigri (1904):
Ad un tratto un'ombra si slanciò fuori dai bambú, con un salto immenso gli balzò alla gola, atterrandolo di colpo. Si udí un grido soffocato, poi come uno stritolío di ossa.
Sorvolo sul fatto che la parola stritolio, stando a questi esempi, sembra tingersi più di truculenza, che di eccentrica maleducazione. Mi preme piuttosto sottolineare che il mio modesto lavoro di raccolta di testi consentiva di correggere rispettosamente ‒ almeno su un punto ‒ due monumenti della lessicografia nazionale. Dunque non stavo coltivando un semplice trastullo privato: quella piccolissima scoperta era una prova che scripta poteva riuscire di qualche utilità per chi, come me, era appassionato di parole.
La fine dell'indugio
Questa osservazione si saldava con il desiderio, che accarezzavo ormai da molto tempo, di pubblicare un sito personale sull'internet.
Mi spingeva ardentemente lo stimolo di studiare la tecnologia telematica; mi tratteneva il timore della possibile vacuità dei contenuti. Andò da sé che la speranza di mettere a disposizione di un pubblico di amanti delle parole una fatica che ritenevo di qualche valore fu ciò che mi indusse ad avviare parolescritte.