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Fotografia e storia

Un intermezzo riflessivo

Quando la mia ricerca sulla stampa illustrata era a buon punto, ma ancora ben lontana dalla conclusione, ho iniziato a riflettere criticamente sulla mia passione per la fotografia, che dopotutto aveva agito da stimolo per l'avvio della ricerca stessa.

Abbandonato un certo furore iconofilo, che mi aveva posseduto fino a quel momento, cercavo di valutare con un certo distacco il ruolo che le immagini fotografiche potevano svolgere come fonti storiche. Dopo la laurea, infatti, trovavo sempre più allettante l'idea di dedicarmi alla ricerca storica, e mi sembrò logico pertanto cominciare a ragionarci sopra sfruttando l'unica cosa che ormai conoscevo abbastanza bene.

È nato così il saggio Fotografia e storia, che ho pubblicato in «Studi storici», sul numero 4 del 1981. Lo ripubblico qui ‒ grazie naturalmente alla cortesia della rivista ‒ perché rappresenta uno dei più importanti snodi del mio itinerario verbale.

Fare storia con le fotografie?

Ormai nessuno storico, nemmeno il più fedele custode della tradizione politico-diplomatica, sarà disposto a negare alla fotografia un posto, magari in piedi, al raduno delle fonti storiche. Passandole in rassegna, nel capitolo del proprio manuale metodologico dedicato a queste ultime, egli non mancherà senz’altro di nominarla, anche se un po’ di fretta, impaziente di passare oltre.

Delle trentasei pagine, per esempio, che l’enciclopedia monografica Feltrinelli-Fisher dedica all’argomento, la fotografia deve accontentarsi di una dozzina di righe (da dividere equamente con il cinema e i nastri magnetici) e, per di più, non proprio lusinghiere. La nuova fonte, infatti, si presterebbe ad una utilizzazione «senz’altro limitata», non tanto, come viene precisato, per la scarsità del materiale disponibile, quanto perché l’efficacia documentaria della fotografia «è di per sé ristretta, e riproduce spesso solo l’atmosfera». [1] Ci si chiede, in verità, a cosa altro miri il lavoro dello storico se non a ricostruire, nel senso più ampio del termine, proprio l’atmosfera di una determinata epoca, ovvero certe caratteristiche peculiari dell’instancabile brulicare umano sulla faccia della terra. Ma qui il problema è un altro, e riguarda la più o meno difettosa efficacia documentaria della fotografia.

Federico Chabod non si mostrò così severo con essa come il suo collega tedesco, e le riconobbe piena legittimità documentaria. [2]

I rischi del fotomontaggio

Più convinta sulla necessità di utilizzare le fonti fotografiche per le ricerche di storia contemporanea si mostra invece Gina Fasoli, [3] a patto però, di sottoporle ad una giudiziosa critica riguardo alla loro autenticità, e mettendo in guardia lo studioso dalle insidie del fotomontaggio.

Ora, che un fotomontaggio possa veramente dar luogo a un falso storico è cosa ben difficile da credere. Dando pure per scontata una magistrale esecuzione tecnica del falso, tale da imbrogliare perfino chi si vede raffigurato, resta il fatto che una fotografia osée della regina Vittoria avrebbe scarsa probabilità di trovare credito fra gli studiosi, mentre un ritratto apertamente cochon della contessa di Castiglione li lascerebbe, tutto sommato, (professionalmente) indifferenti. Anche nel caso in cui la truffa venisse architettata con perfida sottigliezza, il falso dovrebbe pur sempre sopportare il confronto con tutti gli altri documenti in materia, e non gli sarebbe tanto facile spuntarla, Del resto, quale fotografia «storica» ha mai capovolto un giudizio dato ormai per certo?

Un discorso più articolato riguardo all’uso del materiale fotografico come fonte storica si trova nel volume a più mani L'histoire et ses méthodes. Questo il nocciolo: «La photographie ne reproduit pas obligatoirement la réalité. Elle peut soit la interpréter, soit la falsifier par le truquage». [4]

All’apparenza sembra la già sentita raccomandazione di prudenza per le insidie del trucco, ma in verità c'è dell’altro: «Publiée, une photographie prend son sens par ses légendes ‒ prosegue il discorso, dovuto a Georges Sadoul ‒ et aussi par ses rapports avec d’autres documents. Certains hebdomadaires ont pu distraire leur lecteur en publiant à deux reprises la même série de huit photographies, identiques, mais en invertissant leur ordre, et en leur donnant des légendes différentes. Ils présentaient ainsi deux interprétations rigoureusement contradictoires d’un même événement». [5]

Purtroppo il contributo di Sadoul non aggiunge altro, ma già queste osservazioni suggeriscono molto più di quanto non dicano esplicitamente. Il trucco, in realtà, inteso come manipolazione vera e propria del materiale, non pare che debba impensierire molto lo studioso; il rischio di prendere qualche granchio madornale è più teorico che concreto. Il vero problema, invece, sembra essere un altro, e si può esprimere così: la fotografia non inganna seriamente l’osservatore quando è truccata; quando essa è autentica, però, si carica di significati molteplici, tutti molto tendenziosi, e a volte decisamente opposti, a seconda del contesto in cui si trova.

A tutti sarà successo di subire il raggiro degli hebdomadaires di Sadoul, ma se così non fosse, per farsene una idea, basta immaginare due fotografie e due didascalie. La prima foto mostra uno stadio sportivo vuoto. La seconda mostra lo stesso stadio vuoto, ma seppellito sotto i rifiuti. Questa la prima didascalia: «Molto tifo e poca educazione. Lo stadio comunale prima e dopo l’incontro di domenica». Se si inverte però l’ordine delle fotografie, la didascalia potrebbe suonare invece: «Dopo l’appello al senso civile lanciato dal sindaco. Come si presentava lo stadio comunale domenica scorsa dopo la partita, e come si presenta oggi». A quale delle due credere? E se tutte quelle cartacce dipendessero invece da uno sciopero della nettezza urbana?

Ecco così demolita la presunta obiettività fotografica. Ma dimostrare che la fotografia non è affatto oggettiva, non significa venire a capo del problema. In realtà i guai cominciano proprio da questa scoperta. Se, infatti, non si può negare che una stessa fotografia dica cose diverse in posti diversi, è altrettanto innegabile il fatto che nessuno riuscirà mai a rimuovere dal profondo di noi la segreta certezza che la fotografia ritrae la realtà cosi com’è effettivamente. Non si spiegherebbe altrimenti il tipico straniamento che produce in chiunque la vista di un buon fotomontaggio.

Fra oggettività ed arte

A complicare le cose ci si mettono, per di più, anche le pretese artistiche. In principio, per la verità, nessuno ci pensava, e l’idea di andare a dire a un Daguerre o a un Talbot che la loro invenzione era ‒ niente di meno ‒ in odore, se non proprio di menzogna, certo di ambiguità, doveva apparire una solenne sciocchezza; proprio a loro! che non avevano cercato altro che catturare quel riflesso della realtà che la natura stessa si incarica di depositare sul fondo della camera oscura. Può stupire, ma qualcuno si premurò ben presto di un tale ingrato compito. Passata la sbornia della meraviglia, infatti, tutti si accorsero della natura un po’ vile, e soprattutto meccanica della nuova invenzione. La pittura, che al suo apparire era stata data un po’ precipitosamente per morta, si rivelò, alla prova dei fatti, di costituzione assai più robusta di quanto non si fosse creduto. Anzi, essa prese a considerare la nuova nata con un che di sufficienza che non poteva non angustiare i fotografi.

Ebbe così inizio la tenace lotta di questi ultimi per strappare la fotografia dal limbo delle arti minori e consacrarla nell’olimpo delle Belle Arti. Dal tempo delle prime stucchevoli fotografie pittoriche, fino all’approdo non figurativo, la fotografia ha continuato a bussare a una porta che restava molto spesso chiusa.

Oggi però le cose stanno diversamente. I critici sembrano voler risparmiare molte umiliazioni alla fotografia, i foto-artisti del giorno sono vezzeggiati, quelli di ieri riabilitati, i collezionisti si contendono le loro opere, il mercato prospera. La fotografia sembra definitivamente guadagnata ai territori dell’arte, o forse, è l’arte che ha conquistato nuove frontiere. Resta il fatto, in ogni modo, che se risulta acquisita l’equazione fotografia come arte, si deve considerare accettata anche quella corollaria: fotografia come soggettività, che è quel filtro personale con cui l’arte si confronta con la realtà. Ecco allora che nel momento in cui ci sembrava di aver individuato un nocciolo duro di certezza nell’ambigua sostanza fotografica, tutto il discorso sembra essere risospinto in alto mare dalla acquisizione di uno statuto artistico da parte della fotografia, che ci viene riconsegnata forse più seducente, ma assai meno palpabile.

Sembra che l’immagine automatica si trovi soggetta a due poli opposti di attrazione: un polo oggettivo, che con buona pace di molti e contro ogni sofisticheria, fomenta ribellione all’idea di considerarla falsa; e un polo soggettivo, che la pretende filtrata senza scampo attraverso la coscienza e la cultura del fotografo. Si potrà eliminare, forse, questa ambiguità quando una foto di Umberto I seduto al seggio d’onore di un congresso socialista inneggiante al «compagno re» mancherà di stupirci, e quando a fare fotografie non saranno più gli uomini, ma dei computers disobbedienti. Ma per ora vi restiamo prigionieri, consapevoli del fatto che senza dissipare questa ambiguità rimane insoluto il problema dell’impiego della fotografia in sede storica. Cercheremo allora di riconsiderare tutto il problema sotto un profilo diverso, nel tentativo di offrire una soluzione più soddisfacente.

Note

[1] Enciclopedia Feltrinelli-Fisher. Storia, Milano, 1978, p. 187.

[2] Federico Chabod, Lezioni di metodo storico, Bari, 1976, p. 58.

[3] Gina Fasoli, Guida allo studio della storia, Bologna, 1967, p. 149.

[4] Encyclopédie de la Pléiade, vol. II, L'histoire et ses mêthodes, Paris, Gallimard, 1961, p. 1390.

[5] Ivi, p. 1391.