Fotografia e storia
Mi allargo un po'
Rileggendo il mio saggio a più di trent'anni dalla stesura mi colpisce il suo stile cerimonioso, talora ingenuo, che qua e là, tuttavia, cede a qualche puntata ironica. Sulla forma del discorso scritto avevo conquistato un'opinione precisa: doveva essere piacevole, perché credevo ormai fermamente che anche ‒ ma forse soprattutto ‒ il ragionamento più astratto dovesse permettere il godimento estetico di una buona scrittura. Questo ‒ sia detto con la dovuta umiltà ‒ almeno nelle intenzioni.
Non ho cambiato quasi nulla del testo originale, ma ho aggiunto numerosi titoletti, come tributo alla leggibilità di un lungo documento scritto che si affaccia sull'internet.
Nella sostanza mi sforzavo di allargare la riflessione intorno alla fotografia a un discorso più generale sull'immagine, temibile concorrente delle parole scritte, all'apparenza, sulla scorta del corrente pensiero semiologico.
La fotografia è comunque una immagine
Un modo diverso di accostarsi alla fotografia consiste nel dimenticare provvisoriamente i suoi aspetti peculiari, e ricordare invece che, ad ogni buon conto, essa rientra nell’ambito generale delle rappresentazioni visive. La natura un po’ speciale dell’immagine fotografica merita forse un posto altrettanto speciale nel campo del visivo, ma ciò non toglie che sia questo, e non altri, l’ambito che le si addice. Dopotutto essa si rende disponibile all’intelligenza tramite il senso della vista, esattamente come avviene per un disegno o una pittura, e questo, per quanto remoto, ci sembra un punto di attacco del problema più favorevole. Più in generale si può dire che non solo il messaggio visivo ci giunge tramite un senso, ma tutti i possibili messaggi, intenzionali e non intenzionali, che il mondo trasmette ci giungono attraverso i sensi. In sé, questa non sembra una scoperta di gran conto, o per meglio dire, lo è stata forse a suo tempo, ma ormai è entrata a far parte del senso comune.
Il problema della comunicazione si riduce, in ultima istanza, alla difficoltà di trasferire un pensiero da un cervello a un altro cervello. [6] Nasce cioè da un difetto di telepatia. Se si potesse effettuare il trasferimento tramite un semplice atto di volontà, immediatamente, e con la certezza assoluta, da parte di chi trasmette, che chi riceve ha inteso esattamente il pensiero, non ci sarebbero problemi di comunicazione, almeno quanto al senso che siamo abituati a dare alla parola. Abbiamo detto: immediatamente, certezza assoluta, esattamente. In pratica, tempo ed errore uguale a zero. Ammesso pure che la telepatia in futuro possa ottenere le più strabilianti affermazioni, difficilmente potrà raggiungere però questi limiti. Ciò significa che il modello proposto è doppiamente ideale. In realtà la telepatia deve ancora veder riconosciuto presso molti il proprio certificato di nascita, il che sarebbe poi solo un primo passo. In attesa di una migliore affermazione della telepatia, dunque, il pensiero prende vie meno esoteriche, ma in compenso più praticabili, affidandosi alla mediazione dei sensi.
Se però la sfera del senso rende materialmente possibile l’operazione, a maggior ragione il suo indispensabile impiego comporta il sorgere di problemi connessi con la sicurezza del bene trasferito, cioè dei pensieri. Quali garanzie di rapidità e di certezza, in altri termini, offre la mediazione dei sensi? Si comprende che, tra le due, la certezza è quella decisiva, pur senza voler sottovalutare l’importanza della prima. Il rischio di errore, o meglio, di fraintendimento, è quello che più di ogni altro affligge l’atto comunicativo, che trova una seppur parziale assicurazione solo nell’impiego di un codice. Non si deve pensare che istituendo un codice sia possibile eliminare del tutto il rischio dell’errore, tuttavia è possibile, così facendo, conoscere i limiti entro cui l’errore può oscillare, e questo è già molto. Umberto Eco ha trattato diffusamente le implicazioni del codice, per giungere alla più completa e interdisciplinare definizione possibile. [7] Noi ci serviremo di una definizione ridotta e funzionale allo scopo che ci siamo proposti, che fa salva, però, l’idea centrale, rimandando il lettore al lavoro di Eco per tutte le altre articolazioni.
L'importanza di un codice
Trattandosi di un codice espressivo, esso non potrà che applicarsi all’elemento di mediazione, cioè al senso. Ora, la sfera del sensibile si presenta come un continuum senza significato. Per esempio, l’udito. L’orecchio è sensibile ad una vibrazione meccanica compresa entro due soglie di frequenza determinate, all’interno delle quali, però, si può riconoscere un numero pressoché illimitato di sfumature sonore, senza soluzione di continuità. Beninteso, qualche suono, può significare qualche cosa per qualcuno, ma questo è davvero poco. Dire che il continuum non significa nulla, vuol dire che esso può significare tutto. Il continuum è il puro regno della possibilità.
A infrangere l'incanto un po' ebete di questo regno è proprio il codice, di cui è il caso, ormai, di dare questa ponderata definizione: il codice è una serie finita di segmenti, isolati nel continuum sensorio, alla quale viene affiancata, per comune accordo, una corrispondente serie finita di significati. L’istituzione di un codice è subordinata allora a una duplice operazione: l’elaborazione convenzionale e anticipata di una serie finita di significati, e la corrispondente segmentazione del continuum in unità discrete.
Questo porta subito ad osservare che un messaggio codificato è povero per definizione, perché si trova sempre al di sotto delle possibilità offerte dal continuum, mentre un messaggio non codificato potrà declinare all’infinito il proprio significato, libero dalle strettoie imposte dal codice. Nessuna garanzia di certezza è connessa però con una tale illimitata possibilità, laddove, al contrario, il messaggio codificato contiene una buona dose di certezza, proprio in virtù delle limitazioni imposte dal codice. Per farla breve diremo che il codice comporta una povera certezza, opposta alla ricca ambiguità offerta dal messaggio non codificato. Il regno della necessità opposto a quello della possibilità.
Ideologia e scienza
Questa opposizione, [8] però, partecipa a nostro avviso di quella assai più generale tra scienza e ideologia. Se ‒ come ci si è umilmente rassegnati ormai a riconoscere ‒ bisogna considerare la scienza come «una conoscenza che includa in modo o misura qualsiasi, una garanzia della propria validità», [9] allora occorre considerare il suo opposto, l’ideologia, come una conoscenza priva di una garanzia della propria validità. Trasferendo questo discorso sul piano della comunicazione, potremo definire allora messaggio critico un messaggio codificato, e messaggio ideologico un messaggio non codificato. Sarebbe il codice, in altre parole, la garanzia scientifica trasferita sul piano della comunicazione, e ci sembra che Eco voglia significare proprio questo, quando scrive nel suo citato lavoro: «Il codice è lo strumento categoriale di quel compito scientifico che sono le scienze umane. Sconfitto il codice, dell’umano non si darà più scienza, e sarà il ritorno alle filosofie dello Spirito creatore». [10] Resta inteso che un messaggio codificato può contenere benissimo una informazione falsa. In realtà un messaggio non è critico perché trasmette necessariamente cose esatte, ma perché trasmette esattamente cose che possono essere vere o false. Al contrario, un messaggio ideologico può anche contenere informazioni esatte, ma chi lo riceve non ne avrà mai la certezza.
Stabilito allora che il codice costituisce il discrimine tra gli atti comunicativi critici e quelli ideologici, risulta di grande importanza accertare la presenza di qualche codice negli atti comunicativi concreti, per assimilarli al dominio della scienza piuttosto che a quello dell’ideologia, con tutte le conseguenze che questo fatto comporta. Il linguaggio verbale, sotto questo aspetto, costituisce indubbiamente la forma più ricca e articolata di atto comunicativo governato dall’impiego di un codice, e quindi realizza il massimo grado di informazione critica. Non è un caso se ora ci serviamo di esso per cercare di esporre i nostri pensieri relativi alle sue stesse risorse, e più in generale, se si ricorre al linguaggio verbale ogni qual volta la comunicazione richiede il massimo grado di determinazione critica. Come significare, altrimenti, la più innocua dimostrazione geometrica ricorrendo, per esempio, all’arte del mimo? Ma non è certo quest’ultima la rivale del linguaggio, bensì la rappresentazione visiva.
Un terreno scivoloso
Confessiamo di avventurarci con una certa riluttanza in un campo come quello del visivo, che è stato (ed è tuttora) oggetto di numerosi tentativi di illuminazione, per la verità non sempre molto concludenti. [11] D’altra parte siamo anche fermamente convinti che un discorso critico sulla fotografia sia strettamente legato a quello più generale sul visivo. Per non ripiombare allora nei chiusi meandri della «artisticità» della fotografia, o della sua «obiettività», non ci sembra data altra scelta che quella di andare fino in fondo sulla strada che abbiamo imboccato. Il dilemma, seccamente, è questo: le immagini, in generale, dispongono di un codice, oppure no? Dilemma della massima importanza per chi, come lo storico, vuol fare un uso critico e non ideologico delle immagini, e in particolar modo delle fotografie.
A partire dagli anni Sessanta molti studiosi si sono concentrati nella ricerca di questo codice, tentando di isolare delle unità minime di significato, come a dire dei «fonemi ottici», sulla base delle quali leggere l’immagine. Il tentativo muoveva in modo neppure malcelato da un paragone con la linguistica, paragone che si sarebbe però ben presto rivelato deludente.
Oggi la critica, fattasi più scaltra, ha abbandonato la ricerca delle unità, per considerare l’immagine in modo non più analitico, ma sintetico, anche se, ancora una volta, essa guarda a un modello linguistico, quello della semiotica testuale. [12] Le immagini, in altre parole, non sarebbero prive di codice, ma quest’ultimo verrebbe istituito contemporaneamente alla produzione del testo iconico, considerato come un sistema relativamente stabile. «Fuori contesto le unità iconiche non hanno statuto, e quindi non appartengono a un codice; fuori contesto i “segni iconici” non sono affatto segni; non essendo né codificati né assomigliando ad alcunché, è difficile capire perché significhino. Eppure significano. C’è dunque da pensare che un testo iconico, più che qualcosa che dipende da un codice, sia qualcosa che istituisce un codice». [13]
A noi sembra che una regola (il codice) istituita assieme al gioco (il testo iconico) porti, nella migliore delle ipotesi, a un gioco aleatorio, mentre nella peggiore, istituzionalizzi la possibilità di barare. Niente da dire a proposito di un gioco aleatorio, salvo che noi speravamo di trovare una scacchiera, e ci ritroviamo con la roulette.
Speravamo, cioè, nella possibilità di controllare dall’esterno l’atto comunicativo (nel caso del linguaggio verbale può farlo chiunque si munisca del dizionario, strumento che esplicita in anticipo tutte le possibilità del codice) e ci ritroviamo costretti, invece, a ricorrere a una nozione «ontologica» di codice, che rimanda non già all’uso del dizionario, ma alla nozione di enciclopedia, ovvero di ambito culturale, storicamente determinato, e dunque in continuo movimento e instancabile trasformazione. [14] Ma ciò equivale ad ammettere nell’atto comunicativo una buona dose di aleatorietà, il che rimanda direttamente ad una connotazione ideologica. Tuttavia, lo stesso dizionario definisce le parole mediante delle parole, riflessione, questa, che produce un brivido di vertigine, perché insinua il sospetto che non solo l’enciclopedia, ma anche il dizionario, e in genere, ogni atto comunicativo riposi sopra una gigantesca tautologia, che vanifica il nostro sforzo di strappare la comunicazione, mercé il codice, al lugubre «Spirito creatore» evocato da Eco. Dovremo allora rassegnarci ad accettare questa tautologia come intrinseca all’atto comunicativo? È probabile.
Una definizione difettosa
Ciò che fa difetto, in verità, è la definizione di codice proposta sopra. In astratto, effettivamente, un codice viene istituito previo chiaro accordo tra le parti che se ne dovranno poi servire, ma concretamente questo avviene solo per atti comunicativi marginali, cui tengono dietro codici relativamente semplici. [15] Ma per tutti gli altri casi (e sono in quantità e qualità la maggioranza) il rapporto che intrattengono codice e messaggio è lo stesso che intercorre tra l’ormai classico uovo e l’inseparabile gallina, cioè di mutua dipendenza. L’atto comunicativo si struttura progressivamente in messaggio codificato in concomitanza al suo stesso manifestarsi, secondo una dinamica che non può essere che storica.
Detto questo, però, bisogna anche riconoscere che certi settori dell’orizzonte comunicativo sono più avanzati di altri in questa progressiva opera di codifica. Non sta a noi (e particolarmente in questa sede) spiegare perché il destino della comunicazione umana abbia preso la via tracciata dal doppio binario fonema-alfabeto, ma sta di fatto che, almeno in occidente è stato così. In oriente, come è noto, questa via si è rivelata più sensibile che da noi alla suggestione visiva, e ha portato a un grado di formalizzazione del linguaggio verbale relativamente minore. Ma in linea di massima la rappresentazione visiva è rimasta indietro rispetto al linguaggio verbale.
È il caso di sottolineare che essa non è rimasta genericamente indietro, ma è rimasta indietro rispetto alla possibilità di produrre atti comunicativi critici, perché quanto alla adiacente possibilità di produrre atti ideologici, l’immagine non solo fa concorrenza, ma sopravanza, e spesso di molto, il linguaggio verbale.
Da un linguaggio all'altro
Si può fare una verifica sulla natura critica o ideologica di un messaggio misurando il suo grado di traducibilità da un linguaggio all’altro o, addirittura, da un senso all’altro. Abbiamo detto, infatti, che il codice si applica al sensibile per organizzare criticamente un trasferimento di pensieri da un cervello a un altro cervello, mediante la suddivisione del continuum. Ebbene, se questo è vero, allora avviene che l’operazione di codifica, se da un lato si appoggia all’unico elemento di mediazione disponibile ‒ il senso ‒ dall’altro lo supera attraverso la sua suddivisione in unità discrete, e cioè controllabili e riproducibili, realizzando così il già accennato passaggio dall’ambito della pura possibilità a quello della stretta necessità.
Una volta isolati dei segmenti nel continuum, infatti, è possibile anche confrontarli tra loro, cioè tradurli, indipendentemente dal fatto che appartengano al continuum di un senso piuttosto che a quello di un altro. Il codice emancipa il messaggio dal senso perché consente di trasferirlo attraverso il senso, ma non grazie al senso. Un messaggio codificato può giungere così a destinazione in tutta la sua pienezza indipendentemente dalla sua forma e dal senso che lo veicola. In virtù di questo, allora, non fa differenza se il concetto «donna» passa da un cervello all’altro sotto forma di espressione verbale o come raffigurazione visiva. In entrambi i casi il continuum risulta adeguatamente suddiviso per poterne associare un certo segmento al concetto in questione, anche se non sfugge il fatto che l’espressione verbale, possiede la stringente necessità dell’universale, mentre l’immagine rimanda costantemente al particolare, e più che suscitare l’idea generale di donna, richiama l’attenzione su quel particolare tipo di donna che è raffigurato.
Per contro, se è vero che nei confronti della «Gioconda» leonardesca disponiamo di un modesto codice che ci consente di tradurre il dipinto in parole, ricorrendo all’espressione «mezzo busto di donna che sorride tenuemente», dovremo rassegnarci a considerare pressoché intraducibile la sensazione che quel sorriso comunica, e che solo una grossolana approssimazione può assimilare all’avverbio «tenuemente». Se la nozione di «sorriso», abbastanza univoca, ovvero criticamente determinata, si affida alla blanda possibilità di codifica dell’immagine, l’idea di quel sorriso è destinata a giungerci non solo tramite il senso della vista, ma esclusivamente grazie a quel senso, e non ad un altro.
La «Gioconda» non parla
Del messaggio «Gioconda» solo una parte di esso raggiunge la nostra intelligenza in modo necessario; quanto al resto, al mitico sorriso, esso sprofonda nel mare delle possibilità offerte dal senso. Nessuno mai riuscirà a procurare una sola esperienza visiva a un non vedente, quand’anche si mobilitasse tutto il magistero del più raffinato fra gli scrittori. La più estenuata descrizione non potrà mai eguagliare l’esperienza diretta, [16] e non perché, si badi, il linguaggio verbale, lo strumento elocutorio più potente di cui siamo in possesso, non dica abbastanza, ma perché il visivo dice sempre qualcosa di altro, ovvero si rifugia in quella zona del sensibile che, per il fatto di non essere stata soggetta a codifica, recalcitra a ogni vincolo di necessità. Cosi ogni immagine, ma del resto ogni suono, ogni odore, ogni sapore, ovvero ogni esperienza sensibile che rimanda ad un continuum indifferenziato, comporta una buona dose di ineffabilità.
Giova però sottolineare ancora una volta il fatto che la mancanza di determinazione critica dell’immagine non rappresenta povertà nei confronti del linguaggio verbale, bensì diversità, quella stessa diversità che distingue la scienza dall'ideologia. Nessuno, crediamo infatti, si sentirà di sostenere seriamente la superiorità della prima sulla seconda, ma solo la diversità dei rispettivi predicati, che rimandano l'uno alla sfera gnoseologica e l’altro a quella operativa. Analogamente bisognerà riconoscere al linguaggio verbale e all’immagine, gli strumenti di comunicazione più sofisticati che l’uomo abbia messo a punto nel corso della sua storia, per mettersi in contatto con i suoi simili, piena autonomia di azione entro due ambiti che sono comunicanti, ma non coincidenti.
Note
[6] Non consideriamo, per semplicità, i messaggi non intenzionali prodotti dall’uomo o dalla natura. Non sarà difficile, tuttavia, farli rientrare successivamente nel discorso sviluppato.
[7] Umberto Eco, Codice, voce della Enciclopedia Einaudi, Torino. 1978, vol. 3, p. 243-281.
[8] Diciamo espressamente opposizione, in senso opposto a contraddizione, perché le due entità non si negano a vicenda, ma piuttosto si completano reciprocamente, come cercheremo di spiegare più avanti.
[9] Trascriviamo di peso la definizione lapidaria ma illuminante che ne dà Nicola Abbagnano nel suo Dizionario di filosofia, Torino, 1971.
[10] U. Eco, op. cit., p. 247.
[11] Per un discorso critico e bibliografico in proposito, vedi: Omar Calabrese, Arti figurative e linguaggio, Firenze, 1977; Id., Semiotica della pittura, Milano, 1980, anche se il discorso è svolto con particolare riferimento alla pittura.
[12] Cfr. O. Calabrese, Semiotica..., cit., p. 9.
[13] U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1978, p. 282.
[14] Cfr. O. Calabrese, Semiotica..., cit., p. 11.
[15] È il caso, per esempio, del codice segreto che viene istituito tra due giocatori di poker senza scrupoli: pochi gesti o parole associati, di comune accordo, a dei significati ben precisi: coppia, tris, poker, ecc.
[16] Umberto Eco, nel suo Trattato, richiama giustamente l’attenzione sul fatto che Proust, nella Recherche, volendo parlare di un pittore e soprattutto delle sue opere, ha avuto l’astuzia di inventarne uno, consapevole del fatto che neppure la sua penna avrebbe saputo descrivere interamente un dipinto vero (cfr. ivi, p. 234). Si può aggiungere che anche sul versante musicale lo scrittore si è regolato in questo modo, descrivendo i turbamenti prodotti sull’animo di Swann da una «piccola frase» musicale che nessuno avrà mai la soddisfazione di udire.